venerdì 15 maggio 2009

Psicologia e Identità

Sebbene la nostra attenzione in genere sia prevalentemente rivolta all'esterno di noi stessi, ci sono momenti della vita nei quali non possiamo fare a meno di considerare la nostra identità per riscoprirla o ricostruirla dai suoi frammenti. Sono i momenti nei quali essa viene attaccata, allora ci rendiamo conto di quanto valga, di quanto sia assolutamente indispensabile.Una delle suddette circostanze è il tradimento, non solo quello più classico e doloroso (quello del partner) ma anche quello di un parente, di un amico. Ciò che sentivamo essere un rapporto speciale, nel quale ci fosse profonda conoscenza delle rispettive identità e quindi riconoscimento reciproco delle prerogative personali eccellenti (quel qualcosa di prezioso ed unico che ci caratterizza), ci appare invece come un rapporto qualsiasi. Le insofferenze, le critiche, le reticenze che l'altro manifestava trovano infine spiegazione nel fatto che egli preferisca chi è diverso da noi, apprezzi altre caratteristiche, altri comportamenti, altra identità. L'antagonista reale o ideale che l'altro ci pone davanti rappresenta per noi un bivio: inseguire nuovi valori in una contesa che non abbiamo scelto o riaffermare la nostra identità ricusando un giudice ormai parziale?L'occhio dell'amico, del parente, del partner non ci permette più di rispecchiarci in un'identità eccellente e orgogliosa; al contrario essa ci rimanda un'immagine svilita, «qualsiasi», accettando la quale inquiniamo l'identità stessa.Anche il mondo del lavoro sollecita pesantemente la nostra identità, che in esso cerca attivamente la possibilità di esprimersi. Il lavoro è per quasi tutti gli uomini, ormai anche per buona parte delle donne, ciò con cui si misura il senso della propria utilità sociale. Esso ci fa percepire quanto la nostra identità sia utile, utile a qualcosa che supera il semplice tornaconto economico.Purtroppo nella società attuale non sono molte le funzioni lavorative che non risultino oggettivamente nefaste per gli interessi collettivi e parassitarie dei sistemi naturali. Nell'ambito lavorativo al giudizio personale che ognuno tenta di darsi, con minore o maggiore consapevolezza, si sovrappone il giudizio delle gerarchie; quest'ultimo può valutarci come per varie ragioni inadeguati al contesto competitivo, sottoponendo la nostra identità a pressioni destrutturanti. La dimensione professionale per lo più spreme le identità individuali tentando di ricondurle ad un concetto spersonalizzante: la produttività. Ancor più nella società globalista e consumistica è difficile ritagliare spazi di lavoro in cui vige il rispetto delle persone e l'apprezzamento dell'identità degli individui, anziché della loro semplice funzione. In un contesto così degenerato l'essere umano tuttavia non cessa di volere fortemente un'identità, forse anzi il bisogno che essa venga riconosciuta e valorizzata si fa più intenso e lacerante sia a livello individuale che di gruppo.

1 commento:

  1. Identità significa anche capacità di indignarsi. Questo è un termine obsleto, nessuno lo usa più in nome di chissà quale apertura alle identità altre, magari chiuse nel caldo tepore delle nostre casette o meglio dei nostri schemi mentali. Ci consideriamo tolleranti, ma dove c'è un tollerante c'è un tollerato e quindi la partita si gioca su due piani diversi (Balboni, Serragiottto). Spesso la chiamiamo apertuta e tolleranza ma il suo termine reale è INDIFFERENZA, o forse ancora peggio omologazione. Allora quale identità possiamo rivndicare e far conoscere agli altri quando siamo portatori del NULLA!? Mi è rimasto molto impresso il film "Fantasia", che al primo impatto potrebbe sembrare un film da bambini ma se si analizza in profondità è come "Il piccolo principe" porta grandi significati.
    Simonetta

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